“Naturalmente, le malattie non si verificano nel corpo, bensì nella vita , nel tempo, in un luogo, nella storia, nel contesto dell’esperienza vissuta e nel mondo sociale. Il suo effetto è sul corpo nel mondo.”
Questa citazione di B.J. Good descrive in maniera chiara e esaustiva cosa accade a chi si trova ad affrontare una malattia cronica la quale può sconvolgere la vita della persona, mettendo in discussione le abitudini, i comportamenti, i rapporti familiari e lavorativi, le certezze, obbligandola a seguire nuove regole, divieti, e a far i conti con un vissuto emotivo impetuoso.
In queste situazioni il dolore può diventare persistente, perdendo completamente la sua funzione protettiva e di “segnale”, e determina nell’individuo un vissuto di impotenza rispetto alla capacità di far fronte all’esperienza dolorosa e alle conseguenze associate.
Il dolore, secondo la IASP (International Association study of Pain), è “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno”. Questa definizione mette in evidenza come il dolore sia un’esperienza globale, psicologica, multisensoriale, soggettiva ed esista ogni qual volta il paziente ne affermi l’esistenza.
La percezione del dolore e la risposta al dolore sono il frutto di un fenomeno complesso e multidimensionale nel quale interagiscono tre dimensioni (Melzack e Casey) :
- sensitivo-discriminativa (corrisponde alla sensazione ed è responsabile della localizzazione dello stimolo e della discriminazione della sua qualità ed intensità);
- affettivo-emozionale (corrisponde al modo in cui il paziente esprime il dolore, produce spiacevolezza, attenzione selettiva verso il dolore e desiderio di porvi fine);
- cognitivo-valutativa(corrisponde alla riattivazione di un certo numero di credenze sulle cause, sui meccanismi e sulla terapia ed al significato che il paziente dà al suo dolore).
L’esperienza individuale del dolore quindi non dipende dallo stimolo ma da come il soggetto lo interpreta, ricostruisce e riferisce a se stesso e agli altri gli eventi legati ad esso. Sappiamo infatti che pur in presenza della medesima condizione organica, il dolore viene percepito in maniera differente da individui diversi o dallo stesso individuo in condizioni diverse. Fattori di genere, predisposizione, processi cognitivi, eventi in corso nella vita dell’individuo sono considerati eventi più critici dei nocicettori e del midollo spinale per la generazione di condizioni di dolore cronico.
A livello cerebrale c’è una forte interazione tra le aree che processano gli stimoli dolorosi e quelle che elaborano le emozioni; avere un umore irato, depresso o ansioso può ridurre la capacità di sopportazione dell’evento doloroso e aumentare la sofferenza e la frustrazione mentre, al contrario, quando ci si trova in uno stato di benessere il dolore viene percepito come meno intenso o si reagisce meglio ad esso.
La legge 15 marzo 2010, n. 38, tutela chi soffre di dolore cronico e definisce la terapia del dolore come:
«l’insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore.» Tale legge pone l’accento sul «diritto a non soffrire» e sull’importanza di un intervento multidisciplinare nel trattamento del dolore.
È necessario dunque che il paziente con dolore cronico sia ascoltato e riconosciuto nella sua unicità e trattato in una struttura specializzata. L’atto di cura non può esaurirsi soltanto nella somministrazione di farmaci ma è necessario che parallelamente ci sia lo spazio per l’ascolto della storia della persona che soprattutto quando le terapie sono lunghe e difficili da gestire, ha bisogno di sentirsi parte attiva del percorso di cura. L’intervento psicologico va considerato nella presa in carico multidisciplinare del paziente, all’interno della quale è opportuno che i diversi specialisti condividano informazioni e obiettivi al fine di individuare il trattamento migliore per la persona e migliorare la sua qualità di vita.
Il dolore, a prescindere dalla natura della sua origine merita di essere compreso, è importante «sviscerarlo fuori dal corpo» e aiutare il paziente ad affrontarlo, ad elaborare la «perdita di una parte di sé» e a gestire il dolore in quanto tale con l’obiettivo clinico di ostacolare pensieri e comportamenti che prolunghino o peggiorino la condizione algica e il senso di disabilità.
Gli obiettivi primari dell’intervento psicologico sono:
- Accogliere e comprendere il vissuto globale dell’esperienza di dolore del paziente al fine di favorire l’apertura e il passaggio da una condizione «monadica» a quella relazionale;
- Incrementare la motivazione e il coinvolgimento attivo del paziente al fine di aumentare la compliance alle cure;
- Identificare delle strategie funzionali per la gestione del dolore attraverso le quali migliorare la qualità di vita del paziente.
Numerose ricerche mostrano che il dolore cronico è fortemente correlato a condizioni depressive antecedenti all’insorgere del dolore e allo sviluppo successivo di disturbi dell’umore, spesso dello spettro depressivo , disturbi di ansia ed ai disturbi dell’adattamento .I pazienti con dolore cronico hanno tre volte in più la probabilità di sviluppare sintomi psichiatrici rispetto alla media della popolazione sana, mentre i pazienti depressi hanno la stessa probabilità di sviluppare a loro volta una condizione di dolore cronico. L’interazione tra emozioni e dolore può contribuire al ritiro sociale dei pazienti, che spesso subiscono un calo della motivazione e dell’interesse verso le normali attività quotidiane, un processo che porta l’individuo emotivamente afflitto dalla patologia ad arrendersi alla propria condizione e ad evitare comportamenti o circostanze che potrebbero migliorare la condizione di salute.
Da un punto di vista psicologico, il paziente con dolore cronico si trova a ridefinire la sua identità e ad affrontare la paura di perdere il suo ruolo nel mondo esterno e nell’ambito familiare. È necessario quindi lavorare sulle risorse interne dell’individuo, sul miglioramento dell’autoefficacia e sulla ricerca di strategie di coping efficaci per affrontare la nuova condizione. I familiari vanno coinvolti nel processo di cura poiché inevitabilmente il sistema familiare viene scosso dal cambiamento al quale non può opporsi se vuole ritrovare un nuovo equilibrio.
Spesso chi soffre di dolore cronico tende a “catastrofizzare” ovvero ad adottare uno schema mentale cognitivo ed affettivo negativo caratterizzato dall’amplificazione degli effetti negativi del dolore, dalla ruminazione e dal rimurginio sul dolore, e da sentimenti di impotenza nell’affrontarlo. Tale atteggiamento, insieme alla paura del dolore sono responsabili di una serie di conseguenze negative quali una maggiore intensità del dolore percepito, riduzione attività fisica e attività sociale con conseguente aumento della disabilità, ipervigilanza , ansia, maggiore utilizzazione dei servizi sanitari, funzionamento sociale ed emotivo peggiore e una minore risposta ai trattamenti medici. Quindi, all’interno di un percorso psicologico si lavorerà per modificare tali meccanismi cognitivi e per rafforzare la “flessibilità psicologica” , l’ abilità ad impegnarsi nel momento presente, a livello emotivo, cognitivo e comportamentale riconoscendo il dolore “senza giudicarlo” e cercando di separare la dimensione sensoriale del dolore dai suoi aspetti valutativi ed emotivi, e di promuovere una consapevolezza distaccata delle sensazioni somatiche e psicologiche del corpo.
Il corpo è infatti il luogo in cui sta scritta la storia affettiva dell’individuo, un “territorio” in cui le emozioni troppo dolorose per essere vissute e sentite restano inconsapevoli. Spesso i pazienti con dolore cronico non utilizzano con facilità espressioni simboliche, hanno difficoltà a mentalizzare il disagio psicologico e sono poco consapevoli della relazione tra le loro emozioni inespresse e la sintomatologia dolorosa di cui soffrono. Sono questi i casi in cui più facilmente riscontriamo una componente psicogena del dolore, che determina, amplifica o contribuisce a mantenere una patologia dolorosa. Le emozioni attivano la muscolatura mettendo a disposizione grandi quantità di energia, aumentandone il tono e preparandola all’azione. Fino a che l’emozione non si fa strada nella consapevolezza, segnando la sua registrazione come tale da parte della corteccia frontale, rimane al di sotto della soglia della coscienza ma comunque produce una tensione muscolare che non dando adito ad un movimento determinerà una contrazione tonica prolungata per tutta la durata dello stato emotivo in questione. Ciò a lungo andare aumenterà la sintomatologia dolorosa agevolandone la cronicizzazione. Per questo motivo è importante che la persona sia accompagnata ad esprimere le proprie emozioni “fuori” dal corpo in modo da poter recuperare la vitalità del corpo “abitandolo” pienamente e all’infuori dell’emergenza.
Riassumendo quindi gli obiettivi dell’intervento psicologico nel trattamento del paziente con dolore cronico sono:
- ridurre il livello di ansia, depressione e somatizzazione;
- aumentare la consapevolezza del rapporto tra funzionalità emotiva e sintomi fisici;
- permettere l’espressione delle emozioni (paura, tristezza, ansia, rabbia, collera, delusione)
- migliorare l’immagine personale e del proprio corpo e favorire la cura di sé;
- migliorare le relazioni familiari e incentivare le relazioni sociali;
- gestire l’ assunzione dei farmaci;
- motivare all’attività fisica;
- gestione della qualità del sonno.
Numerose ricerche dimostrano come la relazione terapeutica e le tecniche psicologiche (rilassamento progressivo, visualizzazioni guidate, mindfulness, respirazione, training autogeno) determinano dei cambiamenti neurofisiologici nel paziente, tra questi:
- riduzione della carica del sistema nervoso simpatico (eccitatorio-attivante) che genera tensione muscolare, nervosa e psicologica e un miglioramento dell’azione del sistema nervoso parasimpatico (rilassante-calmante), che riduce la frequenza del respiro, l’ipertensione sanguigna e il battito del cuore;
- aumento della serotonina (ormone del piacere fisico);
- aumento dell’endorfina (permette di sentire meno la fatica e il dolore);
- regolazione della produzione di cortisolo (ormone dello stress e dell’ansia);
- aumento della dopamina (permette di uscire dall’inattività e dall’isolamento);
- aumento notturno della melatonina.
Il dolore cronico quindi ci insegna cosa è il benessere ma affinchè si possa recuperare uno stato di piacere e un miglioramento della qualità della vita è necessario placare “il sistema di allarme” dell’individuo e per far questo è necessario un lavoro di cura, ascolto, accoglienza e riconoscimento dell’altro.