Alimentazione e relazione sono due realtà profondamente legate tra loro sin dal concepimento in un rapporto di reciproco influenzamento. Il comportamento alimentare è un processo senso motorio che a partire dalle epoche più precoci di vita, già dal periodo intra-uterino, si modifica progredendo, dall’essere nutrito dall’Altro al nutrirsi autonomamente. La capacità di discernere tra le diverse caratteristiche sensoriali alimentari è una competenza che infatti il bambino possiede in modo definitivo fin dalle ultime settimane di vita gestazionale. Lo sviluppo in utero dei sensi ha la funzione da un lato di modellare il sistema nervoso centrale, fornendo stimoli che interagiscono con la crescita neuronale, dall’altro di offrire al feto uno “scorcio” sul mondo esterno, producendo una sorta di apprendimento in utero. I feti umani ingoiano una significativa quantità di liquido amniotico durante la gestazione, specialmente negli ultimi stadi della gravidanza. La madre influenza quindi lo sviluppo dei gusti del bambino perché circoscrive e delimita la sua esperienza col cibo. In questo modo gli aromi dei cibi mangiati dalla mamma vengono trasmessi al nascituro: inizia così il “flavour learning”. Le molecole dei composti che hanno sapore, contenuti negli alimenti ingeriti dalla madre, passano il filtro placentare, giungono nel liquido amniotico e vengono “assaggiate” dal feto che ne fa così conoscenza. La comparsa delle papille gustative avviene intorno alla 7/8 settimana di gestazione e nei mesi a seguire  compaiono le cellule per la percezione dell’odore e i recettori del gusto; alla 35° settimana di gestazione gli atti del succhiare e dell’ingoiare sono coordinati. Secondo la “fetal programming hypothesisis” esiste un periodo sensibile per la crescita fetale in cui i cambiamenti a livello strutturale e funzionale sarebbero la diretta espressione di stimoli provenienti dall’ambiente. La madre che persegue una dieta inadeguata (con uno scarso apporto di nutrienti o sovralimentandosi) nel corso della gestazione determinerà non solo le condizioni di vita intra-uterine ma anche quelle future esponendo il nascituro  al rischio di disturbi da adulto. Le modalità e il tipo di alimentazione evolvono nel tempo seguendo gradualmente le tappe evolutive del bambino, i processi di separazione-individuazione e trovando modi e spazi relazionali differenti. L’allattamento, che sia naturale o artificiale, costituisce un momento fondamentale dello sviluppo del legame di attaccamento, dà continuità alla fusionalità instaurata tra madre e bambino sin dalla gravidanza, permette a ciascun membro della diade di rafforzare il legame con l’altro preparandosi gradualmente ad affrontare la separazione. La madre, che riesce a comprendere i segnali di fame e di sazietà del figlio,  rimanda al bambino una percezione coerente di ciò che sta sentendo  permettendo una crescita emotiva adeguata. Durante l’allattamento e anche successivamente quando il bambino cresce, gli scambi faccia a faccia e il contatto vocale  rimangono due indicatori importanti della relazione e della reciprocità. Se il rivolgere lo sguardo indica la disponibilità di impegnarsi all’interno della relazione con l’altro, la deviazione dello stesso segnala un’interruzione della comunicazione. Durante l’allattamento, il bambino può distogliere lo sguardo dalla mamma per segnalare una pausa nel ritmo alimentare. Sarà compito della mamma comprendere il bisogno del bambino senza mostrarsi eccessivamente intrusiva. Se durante l’interazione alimentare la madre non riesce a sintonizzarsi con i bisogni del bambino ed è preoccupata soltanto che il figlio concluda il pasto, adotterà un comportamento rigido e fisso. Uno scambio affettivo privo di reciprocità e incoerente non permette al bambino di comprendere i propri stati emotivi nascenti, come le sensazioni legate alla sazietà e il bisogno di essere nutrito, e di imparare a discriminare affetti legati a stati fisiologici differenti. L’interiorizzazione di un rapporto distorto con l’alimentazione può indurre il bambino a controllare la relazione con l’Altro attraverso il cibo utilizzandolo come strumento di comunicazione di un eventuale disagio. Dallo svezzamento in poi, il bambino comincia a differenziare la madre dal cibo, passando dal primo rapporto con la madre-nutrimento, che facilita la sua regolazione, ad una condizione di maggiore autonomia. In questo periodo  di graduale differenziazione dalla madre può succedere quindi che alcuni bambini rifiutino il cibo per esprimere ostilità nei confronti di genitori possessivi ed iperprotettivi, che non concedono loro autonomia ed indipendenza, così come altri possono rifiutarlo semplicemente perché non sono affamati o non desiderano quell’alimento proposto.

Inoltre  in alcuni studi recenti  è stato dimostrato come la tendenza dei genitori all’emotional eating(fame emotiva) fosse positivamente associata alla successiva richiesta di cibo da parte del bambino a fronte di bisogni emotivi, sottolineando dunque il duplice ruolo svolto dai meccanismi genetici e comportamentali. Lo psicoterapeuta, in questi casi, può servirsi di videoregistrazioni dei pasti per osservare, insieme ai genitori, le interazioni tra caregiver e bambino al fine di intervenire precocemente laddove sussistano delle difficoltà. Visionando fotogramma per fotogramma i comportamenti considerati, è possibile analizzare quali schemi senso-motori vengono incoraggiati o scoraggiati e le difficoltà all’interno della relazione, avendo la possibilità di accedere direttamente alla storia dell’interazione e coinvolgendo attivamente i genitori nell’intervento in modo da promuoverne la responsività. Spesso infatti, i genitori non hanno consapevolezza di mettere in atto determinati comportamenti per cui, “guardarsi dall’esterno” insieme a un professionista della relazione aiuta a far luce sulle emozioni spesso implicite e taciute che vengono agite attraverso il comportamento divenendo più consapevoli e proattivi. Le  caratteristiche psicologiche genitoriali e la presenza di disturbi psichiatrici (depressione, ansia, disturbi alimentari) sono da considerare dei fattori di rischio rispetto alla costruzione di una relazione affettiva positiva e sono correlate all’emergere di disturbi alimentari e obesità quando il cibo viene utilizzato per soddisfare bisogni emotivi.  Le problematiche alimentari sin dall’infanzia possono dunque portare a condizioni psicologico/affettive patologiche il cui sviluppo però si può arginare intervenendo precocemente. L’alimentazione inoltre può essere anche un fattore protettivo rispetto all’emergere di comportamenti disfunzionali e disturbi psichici. Numerosi studi mostrano che la promozione di corrette abitudini alimentari, le convinzioni e i comportamenti dei genitori riguardo al cibo e al corpo, la condivisione dei pasti, influenzano notevolmente il comportamento dei figli e fungono da rinforzo sociale scoraggiando l’emergere di difficoltà future. Uno dei fattori condizionanti la diffusione di una solida cultura della prevenzione è rappresentato dai modelli familiari positivi sia nella cura della propria alimentazione e dei propri figli che nella cura dell’affettività delle relazioni. L’intervento psicologico in presenza di problematiche alimentari infantili (inappetenza/selettività/sovrappeso/obesità) è infatti sempre rivolto al sistema-famiglia poiché il comportamento del figlio è spesso espressione di un disagio/difficoltà familiare che trova veicolo di espressione nel bambino il quale necessita di essere compreso, accolto e non stigmatizzato.