La digitalità ha sicuramente modificato il nostro modo di approcciarci alla fotografia e lo scatto da attività intenzionale è diventato un semplice “riflesso”, così come sostiene John Berger, famoso critico d’arte.

Le fotografie dunque sono diventate un prodotto della nostra società consumistica, incredibilmente numerose, sovrabbondanti, esasperate. I social network allora diventano i “contenitori” da riempire con scatti di attimi delle nostre giornate ma, ciò che colpisce è, che sempre più frequentemente, le persone spariscono dalla scena e sono sostituite da immagini di pietanze che diventano opere artistiche da ammirare, e che spesso sono immagini illusorie rese straordinarie grazie agli effetti di luce e colore che le app moderne ci permettono di scegliere.

Il fenomeno dello “scatto ossessivo-compulsivo” del cibo prende il nome di “Food Porn”  ed è ad oggi, diffuso in maniera capillare, tra giovanissimi e adulti, senza distinzione di genere.  Possiamo, in questa “moda” del momento rintracciare sia il “desiderio di creare desiderio” negli occhi di chi guarda la foto, sia la ricerca del piacere attraverso lo “scatto perfetto”.  In entrambi i casi il cibo diventa strumento, medium della nostra comunicazione. La dottoressa  Valerie Taylor, a capo del reparto psichiatrico del Women’s College Hospital all’Università di Toronto, ha studiato tale fenomeno e sostiene  che tale attività possa essere il sintomo di un problema psicologico qualora, tale ossessione diventi il centro della vita “virtuale” e sociale dell’individuo che focalizzandosi solo su tale attività perde di vista lo “sfondo”, e così la tavola da momento di condivisione e aggregazione si riduce a un piatto di spaghetti.

Le immagini di cibo invadono i nostri smartphone ma non solo. Siamo “iper-nutriti” da discorsi sull’alimentazione, su come mangiare sano, quali cibi demonizzare, quali metodi di cottura scegliere, quali prodotti acquistare, cosa consumare e in che momento della giornata. Tale sovrabbondanza di parole attorno al cibo la ritroviamo nelle trasmissioni televisive, alla radio, nei siti, nelle pagine tematiche, sui giornali, sulle confezioni dei prodotti alimentari. E nonostante tale bombardamento mediatico o forse a causa di esso siamo sempre più insicuri, diffidenti, rispetto a come e cosa scegliere. E poi, c’è da dire che la nostra, è una società “paradossale” perché se da una parte siamo iperstimolati al consumo di alimenti dall’ altra siamo chiamati a rispondere alla “legge del controllo” per la quale il cibo è misura, restrizione, perché l’eccesso di peso è disprezzato e la forma del corpo si deve adattare a determinati canoni estetici. Per cui,  da una parte assistiamo a un’esaltazione  edonistica del cibo, alla ricerca del piacere estetico dei piatti e dall ’altra a un elogio del controllo del corpo attraverso la dieta, l’esercizio fisico e il sacrificio.

Resta da capire allora cosa vogliamo comunicare attraverso le nostre istantanee, quale è il messaggio che veicoliamo, quali sono i bisogni che esprimiamo attraverso le immagini. E come tale dicotomia sia presente nelle nostre foto.

In generale, la fotografia ha due funzioni: da una parte registra e rappresenta la realtà oggettiva, dall’ altra fornisce la visione soggettiva del fotografo. Per cui, c’è da chiedersi quali significati impliciti sono sottesi dietro le immagini del cibo. Cosa dicono di noi? Le fotografie in qualche modo rispecchiano una percezione della realtà del fotografo, sono una proiezione del suo mondo interno. Il cibo fa parte dell’identità del soggetto, è un modo attraverso il quale l’individuo si definisce, crea appartenenza e si identifica nelle tradizioni.

Per cui, la chiave di lettura del fenomeno del food porn non è poi così scontata. Potremmo condividere i nostri piatti per rinforzare ai nostri occhi e a quelli degli altri il bisogno di appartenere a una certa categoria (carnivori, vegetariani, vegani, crudisti, ecc ), potremmo farlo per testimoniare la nostra apertura ad etnie diverse (basti pensare all’uso smodato di spezie e cibi di altre culture nella nostra quotidianità), potremmo farlo per il desiderio di suscitare desiderio nell’altro, potremmo farlo per il bisogno di sentirci meno soli nel consumare il nostro pasto in solitudine nella nostra casa, al bar o in ufficio, potremmo farlo per mostrare agli altri la nostra capacità di impegnarci nella nostra dieta cercando dunque di esaltare un piatto di insalata come se fosse la cosa più succulente mai mangiata, potremmo farlo per evitare di comunicare con chi è seduto accanto a noi e con cui non abbiamo voglia di parlare, e potrei continuare ancora con gli esempi, che sono ipotesi di uno spaccato sociale di fronte al quale non dobbiamo limitarci a “vedere”, ma “guardare”. L’esercizio della vista può limitarsi infatti allo stadio puramente sensoriale, l’attività del guardare comporta un’elaborazione cognitiva maggiore. Ma, del resto la nostra è la società dell’ “iperinvestimento” dello sguardo, i nostri occhi sono bombardati da stimoli visivi ma l’elaborazione consapevole e critica di ciò che stiamo guardando lascia desiderare.

Credo che, la Mindfulness in questo senso stia cercando di fornire degli strumenti affinché le persone possano riappropriarsi della propria capacità di fare esperienze consapevoli e negli ultimi anni, questo atteggiamento di esser presenti a se stessi si sta diffondendo anche nel nostro rapporto con l’alimentazione. Mangiare “Mindfulness” significa innanzitutto sviluppare un buon rapporto con il cibo aiutando le persone a prendere coscienza dei segnali che il corpo ci invia, dando uguale attenzione a tutti e cinque i sensi, nessuno escluso. Questo allenamento è sicuramente molto utile anche per sviluppare un “occhio maggiormente critico” e dare alle persone la libertà di scegliere ciò che si vuole essere e fare.

Per cui, tornando alle immagini, fermo restando che le fotografie di cibo sono diventate onnipresenti, ciò che ci dobbiamo chiedere è che importanza gli diamo e quanto nello scatto fotografico c’è  di noi. Il “Food Porn” è senza dubbio un fenomeno del momento e come tale non va banalizzato ma contestualizzato e considerato un “linguaggio di espressione” della nostra cultura.