I Disturbi del comportamento alimentare sono lo specchio di un malessere esistenziale che si palesa nel rifiuto o nell’abuso di cibo e nella distorsione dell’immagine corporea innescando meccanismi autodistruttivi che vanno a ledere il funzionamento fisico e psicosociale dell’individuo.

Significativa è la descrizione della malattia psichica che Galimberti espone nel suo libro “L’ospite inquietante, Il nichilismo e i giovani” e di cui riporto un passo che considero calzante rispetto al significato profondo dei disturbi alimentari: “Il bisogno di essere accettati e il desiderio di essere amati ci fanno percorrere strade che il nostro sentimento ci fa avvertire come non nostre, e così l’animo si indebolisce e si ripiega su se stesso nell’inutile fatica di compiacere gli altri. Alla fine l’anima si ammala, perché la malattia, lo sappiamo tutti, è una metafora della devianza dal sentiero della nostra vita.”

La diffusione di queste patologie è costantemente in crescita e purtroppo permane un grave ritardo nella diagnosi e nel trattamento, che rischia di determinare la cronicizzazione del disturbo e una prognosi infausta.  L’alimentazione sembra ciò che c’è da correggere ma in realtà è solo la “punta dell’iceberg”, la manifestazione visibile del disagio che non deve essere minimizzato ma ascoltato, accolto e compreso. I disturbi del comportamento alimentare non sono quindi disturbi dell’appetito, non rimandano alla soddisfazione di un bisogno biologico ma al piano dell’amore.

La distorsione dell’immagine corporea  è uno dei nuclei di base della patologia.

I soggetti con dca parlano di un corpo distante, estraneo, nemico e hanno l’impressione che non gli appartenga sentendo continuamente di non essere come dovrebbero. C’è un’assenza di consapevolezza verso il proprio corpo reale e una difficoltà a interpretare cognitivamente ed emotivamente gli stimoli provenienti dal corpo. L’esperienza di interazioni precoci negative è una delle variabili responsabili di un arresto nel processo di acquisizione dell’immagine corporea. Il rifiuto del corpo e la ricerca progressiva di un corpo ideale, fa sì che la negazione del proprio corpo comporti una negazione di se stessi e del proprio diritto e desiderio di essere al mondo. Il paziente sviluppa un dca come un “tentativo” di cura di sé, di auto-accudimento dei propri bisogni e delle proprie richieste che non possono e non devono essere espresse. Il dolore che si prova per il non riconoscimento di sé non potendo essere vissuto, viene negato in una continua coazione dove il cibo sostituisce altro e il corpo diventa uno strumento meccanico di controllo e annullamento di Sé. Chi soffre di dca ha un livello di volontà molto alto attraverso cui limita il piacere di vivere.

Nel lavoro terapeutico con chi soffre di dca, l’approccio psicocorporeo biosistemico mi ha permesso di sviluppare un metodo attraverso il quale, al centro dell’attenzione terapeutica  non c’è il disturbo alimentare ma la persona con la sua storia e la sua unicità che è necessario recuperare. Il disagio psicocorporeo è affrontato a partire dall’unità corpo-mente, dove la psiche influenza il corpo ed il corpo influenza la psiche e l’obiettivo è quello di ritrovare l’integrità complessiva attraverso un lavoro di cura sulle emozioni. La relazione terapeutica è il luogo in cui accolgo il paziente permettendogli di sperimentare un nuovo modello di interazione e di co-costruire pian piano una relazione di fiducia all’interno della quale potersi incontrare e riconoscere. Per far questo è necessario stare e accompagnare il paziente nella sofferenza profonda. Nella prima fase della terapia, i pazienti sono assillati dai pensieri rimurginanti e ripetitivi sul cibo, il peso e la forma del corpo per cui è necessario ampliare l’esperienza portandoli gradualmente a considerare ciò che avviene anche nel loro corpo, quello sconosciuto che all’interno della relazione terapeutica ottiene sin da subito un ruolo attivo. In chi sviluppa un dca c’è una fortissima scissione tra la mente e il corpo per cui uno degli obiettivi principali che mi propongo è di aiutare il paziente a prendere coscienza dell’unità corpo-mente la quale si rispecchia nell’emozione. Le emozioni sono un “campo sconosciuto” per queste persone le quali spesso non sono cresciute in un ambiente affettivo che ha offerto loro lo spazio in cui permettere l’esistenza e la comunicazione dei loro stati emotivi. Il lavoro terapeutico di “alfabetizzazione corporea”, risulta quindi fondamentale per poter pian piano scoprire corrispondenze fra posture, gesti, movimenti e atteggiamenti  psichici e cominciare ad individuare, nominare e dominare  le emozioni evitando così di “agire” impulsivamente i propri moti interni attraverso il cibo. Il lavoro corporeo permette di ridurre le tensioni muscolari e le rigidità favorendo l’emergere di memorie profonde che necessitano di essere accolte con grande comprensione. Inoltre permette di migliorare l’autostima e la percezione dell’immagine corporea, facilita l’espressione emozionale e favorisce lo sviluppo di un senso di padronanza.

 In sintesi, gli obiettivi dell’intervento psicologico sono:

-normalizzare il comportamento alimentare attraverso la psico-educazione e la collaborazione con il medico/nutrizionista;

-aiutare il paziente a prendere contatto con le proprie emozioni, imparare a distinguerle e viverle in maniera funzionale;

-favorire l’emersione della storia personale e il collegamento con i sintomi alimentari;

-aiutare a gestire stress, angoscia, ansia in maniera costruttiva;

-sostenere l’apprendimento di strategie comportamentali per modificare i comportamenti di evitamento e/o di controllo correlati all’immagine corporea e al peso;

-migliorare l’autostima e le relazioni interpersonali;

-sviluppare un rapporto di alleanza con il proprio corpo.